CONI LAZIO. Virginia Pucci e il karate: "Una questione di famiglia"

E’ un’atleta di Civitavecchia. E’ appena “entrata nella storia”, come si usa dire in questi casi, vincendo il secondo titolo mondiale consecutivo, ma non ha niente a che fare con l’acqua, salata o dolce che sia. Niente kite, windsurf o pallanuoto, top games dello sport civitavecchiese. Virginia Pucci, infatti, pratica il karate. “E’ il marchio di fabbrica della mia famiglia – racconta al telefono di ritorno dalla trasferta iridata – diciamo che ho raccolto l’eredità paterna.” Virginia è figlia di Stefano Pucci, tecnico federale di lungo corso, membro della commissione tecnica della federazione internazionale e iniziatore di questa rigorosa disciplina nella città laziale. “Prima che mio padre fondasse la Meiji Kan, quasi 40 anni fa, a Civitavecchia esisteva una sola palestra che raccoglieva un po’ tutte le arti marziali.” Giocoforza che kimono e tatami entrassero prestissimo nella sua vita. “A quattro anni ero già in palestra, dove mi aveva preceduto mia sorella Stefania.” Prima gara nel 1999, a 13 anni, e già un’eredità pesante da sostenere. “Mio padre avrebbe voluto un figlio maschio, pensando magari che sarebbe stato più facile per lui trasmettergli l’amore per questa disciplina, ma nel corso degli anni si è dovuto ricredere.” Oggi Virginia a 28 anni è la prima atleta italiana (ma anche fuori dai nostri confini si contano rarissimi casi), ad aver vinto due campionati del mondo consecutivi nella stessa specialità (kumite, over 60 kg.). “Il kumite, in quanto sport di combattimento che prevede anche il contatto, viene regolato severamente. Compiuti i 35 anni sei fuori. I riflessi si allentano e i rischi aumentano. Anche se si tratta di uno sport che non prevede il ko, può essere comunque pericoloso.” Eppure, alla severità delle leggi talvolta non corrisponde uguale precisione nell’applicarle. Arbitraggio opinabile, lo definisce, e in fin dei conti sarebbe la ragione per la quale il karate non ha ancora trovato il suo posto al sole, tra quelli nell’Olimpo dei Giochi. “Basterebbe indossare un corpetto che s’illumini al contatto, come nel taekwondo o prevedere un avvertimento sonoro quando un colpo va a segno, sull’esempio della scherma. Eppure solo da poco tempo si è deciso di introdurre le telecamere, per facilitare gli arbitri in caso di controversia.” Sembra un paradosso, ma l’estrema abilità tecnica richiesta nel portare i colpi, spesso finisce per mettere in difficoltà il giudizio dell’uomo, spiega Virginia, che definisce la sua disciplina “completa” ed “elegante”. Di sicuro efficace. In tempi di sicurezza scarsa o nulla, il karate è visto spesso come un’assicurazione personale. “Negli ultimi due/tre anni, in palestra le iscrizioni al femminile sono aumentate in maniera esponenziale, e oggi sono al 40-45% del totale. Ma chi viene da noi la prima cosa che impara è l’autocontrollo, per questo il karate si può considerare uno sport adatto a chiunque, dall’individuo chiuso a quello aggressivo.”